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  • Gramsci e il Sud come spazio di emancipazione
    39-55
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    156

    The paper will actively engage with the contradictions found in Gramsci in an attempt to tease out the elements of emancipation found in his thought, as well as a sub-culture of opposition against Western notions of rationality. Antonio Gramsci’s analysis of the Italian South and of the Southern Italian peasantry in relation to the formation of a radical politics of emancipation constitutes one of the most salient features of his critique of orthodox Marxism. I argue that for the Italian Marxist theorist, the liberation of the Italian peasantry is not only a project of social, economic and political emancipation. Rather, the peasantry’s emancipation is also seen as a project of cultural liberation, a liberation from the dominant strands of rationalist and positivist Enlightenment thought, which Gramsci saw as encapsulated in Crocean philosophy. For Gramsci, the task of the organic intellectuals is to create an ideational sphere in which the colonized South can potentially articulate and celebrate a culture that has historically been deemed backward and primitive. However, Gramsci’s analyses of the South also contain historicist encrustations, which create a dialectical tension in his theory of politico-cultural emancipation that has never really been solved. I argue that the positivist and progressionist encrustations of Gramsci’s program for the emancipation of the South is an instantiation of a wider, Western, 19th and 20th century intellectual tradition which conflates “progress” as such with emancipation, a tradition that goes beyond the Italian and European context, and that is even paralleled by the model for black emancipation in the American South put forth by a figure as seemingly divergent as, say, W.E. B. Du Bois in the The Souls of Black Folk (1903).

  • «Non so scrivere inglese, a momenti neppure italiano… datemi una “giobba” qualsiasi»: gli emigrati italiani nel teatro di Nino Randazzo
    56-68
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    159

    L'articolo prende in esame la rappresentazione culturale, sociale e linguistica degli italiani emigrati in Australia nella scrittura per il teatro di Nino Randazzo, drammaturgo di origine eoliana, emigrato a Melbourne nel 1952, considerato uno degli autori più importanti e prolifici nel contesto della cosiddetta “letteratura dell'emigrazione”, e più in particolare della letteratura italo-australiana in lingua italiana. Di particolare interesse è il tema dei pregiudizi culturali e sociali degli anglo-australiani nei confronti delle persone di origine italiana, etichettati come ignoranti, impossibili da acculturare e disciplinare, in gran parte legati alle organizzazioni criminali, che parlano per lo più una varietà mista di italiano e inglese. Così, in particolare, nella commedia Il Sindaco d'Australia (1981), in cui l'immagine stereotipata (ma esilarante) dell'emigrante del sud Italia, impulsiva e ambiziosa, caratterizzata a livello linguistico dall'uso di termini italo-australiani; e nella commedia Victoria Market (1982), concepita da Randazzo come protesta contro la tendenza degli anglo-australiani a costruire stereotipi nei confronti degli italo-australiani, in questo caso quello del'italiano mafioso. Il teatro di Randazzo, tuttavia, riesce a distinguersi dalle opere della maggior parte dei drammaturghi italo-australiani di prima generazione per il suo tentativo di demistificare in modo divertente tali pregiudizi e luoghi comuni. È nella scelta di un tono popolare della commedia, ottenuta anche attraverso la sapiente mescolanza di forme italiane più tradizionali con termini italo-australiani tipici degli anni in cui sono ambientati gli eventi narrati, che risiedono gli aspetti specifici di questo autore.

  • Tra descrizione e rievocazione: fantasticherie di un ritorno al Sud nelle novelle di Giovanni Verga
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    Nelle sue opere, Giovanni Verga non descrive la Sicilia attraverso un'accurata descrizione della realtà, ma attraverso una rappresentazione mentale della stessa dalla lontana città di Milano, dove vive. Oltre i confini della Sicilia, la modernità divora personaggi, il cui destino non è descritto da Verga. È l'unico autorizzato a muoversi in questo spazio “di là del mare”, dal quale osserva “dall'altro lato del cannocchiale” le“ larve" che vivono nell'isola. Lo scopo di questo articolo è mostrare come Fantasticheria, I dintorni di Milano, Di là del mare e Passato! hanno come terreno comune un processo di ricreazione della Sicilia come luogo legato a un passato che non tornerà mai più, per questo l'isola viene descritta da una prospettiva idealizzata e nostalgica. La modernità è infatti una condizione irreversibile come la morte, che, in Passato !, appare come una spietata conclusione di questo processo di ricostruzione.

  • Testimoniare “un altro tempo all’interno del nostro tempo”: Tutto il miele è finito di Carlo Levi
    10-27
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    170

    Tutto il miele è finito fa parte dell'interesse di Carlo Levi per le culture Altre e nella continuità dell'incontro con la diversità antropologica del Mezzogiorno inaugurato da Cristo fermato a Eboli. Questo articolo si concentra sul tema dell'arcaico, e sulla prospettiva della "compresenza dei tempi" che caratterizza il pensiero di Levi, per dimostrare come da Tutto il miele è finito emerge la testimonianza "di un altro tempo che precede la storia ma che è se stesso contemporaneo della storia e presente come la storia stessa ”(G. Agamben).

  • Premessa
    6-7
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    Premessa alla sezione speciale del numero 26 di ItalDeb

  • Restare o partire? Sulle rappresentazioni non stereotipate di Napoli
    36-53
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    L'immagine letteraria di Napoli, "Capitale del Sud", che vede periodiche alternanze di crisi e splendore nelle arti, è sicuramente dicotomica: da un lato il locus amoenus in cui fiorisce l'inventiva e diverse tradizioni culturali si intersecano e convivono; dall'altro, il luogo simbolico di immense disparità sociali, uno scoppio di epidemie e la culla di una mentalità rilassata e reazionaria. L'immagine usata da Benedetto Croce per definire la città, "un paradiso abitato dai diavoli", risale al Medioevo, e viene negata di volta in volta dagli autori che intendono costruire un mito positivo di napoletanità, ma già agli inizi 20° secolo, e quindi soprattutto nel periodo dal 1943 (ai giorni nostri), ci sono accenti sempre più critici nei confronti di questa immagine, che risultano - più che nell'odio o nel disprezzo per la città e i suoi abitanti - nella tendenza ad allontanarsi da Napoli, per abbandonare una realtà contraddittoria che non risolve i suoi problemi, ma come una foresta vergine ricresce distruggendo ogni elemento del progresso. Gli autori esaminati nell'articolo sono: Carlo Bernari, Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Fabrizia Ramondino, Ermanno Rea, Giuseppe Montesano, Elena Ferrante.